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Retina Italia onlus, Assia Andrao: “Quant’è faticoso avere come compagno di vita una distrofia retinica”

di Irma D’Aria 

La Repubblica – Salute del 30/06/2021

Il senso di inadeguatezza, la tendenza a isolarsi con il rischio di depressione. E poi le difficoltà a scuola e al lavoro. La presidente dell’associazione di pazienti spiega come si può convivere con le distrofie retiniche e quali sono i problemi ancora da risolvere.

Nessuno meglio di chi vive in prima persona una malattia sa spiegarti cosa si prova, quali sono i bisogni più urgenti, come essere d’aiuto in modo concreto. Per questo “Retina in salute” ha incontrato Assia Andrao, presidente dell’Associazione Retina Italia onlus, che qui ci porta alla scoperta del mondo degli ipovedenti.

Si può convivere con una distrofia retinica? Quali sono le cose che non si possono fare?
Una patologia con conseguenze così gravi non si può accettare mai, ma conviverci devi e puoi. Superando anche un impatto psicologico importante per la famiglia, prima se la diagnosi è fatta ad un minore, e a tutti quando la diagnosi è fatta in età adolescenziale o più avanti. E’ molto difficile prevedere la progressione della malattia, potrebbe peggiorare velocemente e portare alla cecità in poco tempo o in maniera più lenta passando attraverso le molte fasi di ipovisione. Per questo, non si riesce a programmare la vita con progetti a lungo termine. Ogni scelta viene fatta in funzione della gravità dell’ipovisione. Insomma, per convivere con una distrofia retinica occorre prenderne coscienza, per poter valorizzare le proprie possibilità, ma anche per poter acquisire le capacità e le armi per combattere contro pregiudizi e stereotipi. E’ un percorso complesso e difficile che non si può fare da soli: avere come compagno di vita una distrofia retinica è certamente molto faticoso, ma il primo passo per conviverci è conoscere la propria malattia. 

Comprendere questa malattia non è semplice. Come spiegarla in parole facilmente comprensibili?
Le distrofie retiniche sono patologie rare, degenerative, progressive e come viene spiegato dai ricercatori sono dovute a mutazioni genetiche. I geni che causano le distrofie retiniche sono più di 200 ma queste patologie sono monogeniche quindi si possono manifestare in modo diverso a seconda del gene in causa. Da qui l’importanza, per ogni paziente, di avere la diagnosi corretta attraverso il test genetico. Ci sono forme di distrofie retiniche che si manifestano già in età infantile con conseguenze già molto gravi, come l’Amaurosa Congenita di Leber, che determinano fin da subito il coinvolgimento della famiglia nelle scelte di vita. Ma la maggior parte delle distrofie retiniche come la Retinite Pigmentosa o la malattia di Stargardt si manifestano con evidenza in età adolescenziale o anche più tardi.

Quali suggerimenti pratici può dare a chi deve gestire questa patologia ma vuole mantenere la propria autonomia? Cosa si può fare?
Oggi la tecnologia ci aiuta moltissimo e ci sono centri per la cosiddetta “abilitazione visiva”, in grado di individuare gli ausili tecnici che rispondono alle nostre esigenze, per le persone ancora ipovedenti. E’ possibile poi seguire corsi di mobilità che ci insegnano ad usare il bastone bianco, o farsi guidare da un cane guida. Certamente occorre che le istituzioni prendano seriamente coscienza della necessità di abbattere le barriere architettoniche. Purtroppo, quando si parla di persone con disabilità si pensa sempre alle persone con disabilità motoria, mentre quelle sensoriali o cognitive non sono previste. La causa forse è da ricercare nella idea radicata che le persone ipovedenti o cieche devono essere sempre accompagnate, oppure devono “restare a casa”. Oggi non è più così, fortunatamente i giovani vogliono essere autonomi, fare da soli le loro scelte, non dover dipendere sempre da altri. Certamente ci saranno situazioni in cui avranno bisogno d’aiuto, ma quello che potrebbero fare in autonomia lo vogliono fare. 

Per chi studia che soluzioni ci sono nella vita di tutti i giorni?
Gli studenti a cui è stata riconosciuta una invalidità grave possono avvalersi della normativa vigente. In particolare, il D.LGS. n. 66/17, Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, è uno dei decreti attuativi della Buona scuola, ridefinisce molte delle procedure previste per gli alunni con disabilità, riformando non pochi aspetti della L. n. 104/92. Tuttavia, per coloro che sono ipovedenti e non necessitano di insegnanti di sostegno e non hanno richiesto o ottenuto il riconoscimento di invalidità, saranno gli stessi insegnanti che dovranno collaborare con gli studenti per capire quali accorgimenti adottare per permettere un normale percorso scolastico. 

E, invece, per chi lavora che tipo di tutele sono previste?
Chi lavora e appartiene alle cosiddette categorie protette può far riferimento alla Legge n.68 del 1999 che riforma il collocamento obbligatorio introducendo il c.d. Collocamento mirato, vale a dire come testualmente riportato nella norma: “quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserirle nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzioni dei problemi connessi agli ambienti lavorativi”. Il problema diventa più complesso per le persone con distrofia retinica che hanno intrapreso il percorso lavorativo in una condizione non grave della patologia, con un percorso professionale che non è più possibile proseguire al peggioramento della malattia. 

A volte chi soffre di queste patologie tende ad isolarsi e può cadere in depressione: come evitare questo rischio?
Ricordo che parliamo di patologie rare e senza terapia fatta eccezione per la terapia genica indicata soltanto per coloro che hanno la mutazione del gene RPE65. Patologie che iniziano con sintomi lievi, che progrediscono inesorabilmente, lentamente o velocemente e che portano alla cecità. Sapere che nessuno può fare nulla, anche solo per rallentare la degenerazione, porta ad un senso di solitudine e abbandono che coinvolge anche la famiglia. L’ipovisione è una condizione ibrida, invalidante, disomogenea alla quale non è possibile dare una connotazione precisa, perché data la complessità della patologia, è molto soggettiva. Finché resiste un residuo visivo, persiste la speranza che la ricerca scientifica trovi una terapia, che vista la problematica della malattia e nonostante i grandi obiettivi raggiunti, sembra ancora molto lontana. Chi vede la propria vista degenerare creando sempre più difficoltà nella vita quotidiana, si focalizza su quello che ha perso, vivendo in una continua fase di “lutto”. Questo porta inevitabilmente alla depressione. Occorre quindi imparare a sfruttare sempre il residuo visivo, per non perdere le opportunità di vita che si è in grado di gestire. 

Voi come associazione cosa fate per aiutare i pazienti a gestire meglio la malattia?
In una situazione nella quale l’attesa per una cura è il punto ferma nella vita dei pazienti, uno dei nostri obiettivi è fornire informazioni tempestive, pertinenti e accurate che permettano alla comunità dei pazienti di essere aggiornata sulle novità dalla ricerca, sulle possibilità terapeutiche disponibili, sui trials clinici in corso. Pubblichiamo una rivista trimestrale in formato cartaceo, cd o mail, con una newsletter quindicinale o anche giornaliera all’occasione. Organizziamo incontri in audio conferenza ogni 20 giorni e su piattaforme digitali. Questi incontri sono stati molto importanti nel periodo della pandemia, ma hanno sempre fornito ai pazienti un momento di condivisione dei problemi e di confronto su come vengono da ognuno affrontati. Organizziamo anche due convegni scientifici all’anno in collaborazione con il nostro comitato scientifico presieduto dalla Prof.ssa Francesca Simonelli, direttore della Clinica oculistica Vanvitelli di Napoli. Abbiamo in cantiere diversi progetti e speriamo di realizzare al più presto “Convivere con una distrofia retinica”, cioè incontri pubblici in diverse piccole città, con lo scopo di sensibilizzare le istituzioni sulle conseguenze delle distrofie retiniche, ma soprattutto sviluppare nei pazienti e nei loro famigliari un’adeguata comprensione della patologia che li ha colpiti.  

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